tratto da: Corriere.it
Bisognerebbe fare un monumento a quel milite generalmente ignoto che è il Traduttore: ignoto anche quando il suo nome compare nel frontespizio di romanzi, racconti, saggi. Un grande linguista come Benvenuto Terracini disse che si tratta di un essere umile e infelice, perché lavora in silenzio, all’ombra del proprio autore e nel migliore dei casi il risultato che ottiene è di essere considerato un pazzo utopista. In effetti tradurre romanzi (e più che mai poesia) è un’operazione paradossale, perché ha qualcosa di impossibile: si tratta di comprendere quel che è stato detto da altri (ma non tutto è comprensibile, in letteratura) e di riprodurlo in un altro sistema linguistico, culturale e testuale che rispetti anche le zone oscure dell’opera di partenza. Il fatto è che il traduttore letterario lavora con una materia che per partito preso gli oppone resistenza.La gente che pontifica sulla pratica del tradurre si spreca. Ci sono centinaia di saggi teorici sull’argomento e migliaia di frasi celebri, dal bisticcio «tradurre-tradire» alle considerazioni di Cervantes, il quale diceva che la traduzione è come il rovescio di un arazzo fiammingo, dove si intravedono le figure del dritto ma oscurate da fili e nodi. Una sorta di monumento al traduttore viene giustamente eretto ogni anno dal Salone del libro di Torino, che gli dedica interventi e omaggi. Il decennale, nella imminente edizione della fiera, viene celebrato da una decina di appuntamenti: interessante il convegno sugli effetti delle traduzioni nella nostra letteratura. Che si apre con una domanda provocatoria: è vero che Ammaniti, e con lui buona parte del cosiddetto noir italiano, scrive come in una cattiva traduzione dall’americano? Ci sarà anche una lectio magistralis di Luca Serianni sui sinonimi e sull’uso dei vocabolari. La domanda potrebbe essere radicale: esistono i sinonimi? La risposta sta in un bel libro di Susanna Basso (traduttrice di scrittori come Alice Munro, Ian McEwan, Kazuo Ishiguro, Martin Amis), Sul tradurre (Bruno Mondadori). La Basso, che alla teoria preferisce nettamente il racconto dell’esperienza (sua e di altri) in una sorta di diario di lavoro, non esclude l’utilità del dizionario. Però sa bene che «nessun dizionario può contenere la parola che cerca il traduttore, ma tuttalpiù talvolta, e quasi per caso, può suggerirla». Serve piuttosto la memoria: «Tradurre è un po’ come avere interi romanzi sulla punta della lingua». Che cos’è, in italiano, la lìtost di Kundera? Invidia? Non proprio: «È uno stato tormentoso suscitato dallo spettacolo della nostra miseria improvvisamente scoperta», dice lo scrittore cèco, «un desiderio di identità assoluta». Insomma, quel che prova un traduttore di fronte al testo da trasporre in un’altra lingua. Tradurre è mentire (transitivo), aggiunge Basso: mentire sintassi, lessico, stile, ritmo. Si capisce, eccome, che Susanna Basso, nel tradurre, ha riflettuto molto sul suo lavoro, e ne offre esempi vivi, mettendo a confronto brani e discutendo varie opzioni, i pro e i contro: il perdere e il guadagnare nel passaggio da una lingua all’altra. Ma soprattutto si capisce come non ci sia pratica migliore del tradurre per entrare nel cuore palpitante della letteratura, cioè nelle verità più profonde del linguaggio. Che può sembrare ovvio, ma oggi non lo è.
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