tratto da: La Stampa
Le autorità italiane, è notizia recente, pretendono giustamente che nei documenti dell’Unione europea l’italiano non venga discriminato. Resta però il fatto che, comunque, negli importanti incontri informali e in molte discussioni ufficiali, si parla inglese, o francese, o magari tedesco, le lingue della comunicazione internazionale e/o del potere economico. Lingue che molti dei nostri rappresentanti conoscono poco e male.
Non è colpa loro. Non del tutto. La cultura italiana a lungo ha ignorato la necessità di conoscere le altre lingue moderne. Si faceva un po’ d’eccezione per il francese - con la paradossale conseguenza che un tempo i romanzi russi venivano tradotti non dall’originale, ma dalla loro versione francese (lo stesso, più di recente, accadde per un dramma di Tennessee Williams). Un pochino si faceva eccezione anche per il tedesco, perché serviva a filosofi e filologi. Ma si trattava di conoscenze per pochi.
L’Università non pensava affatto che valesse la pena dare spazio e rilievo allo studio delle lingue e delle culture straniere moderne. Furono le facoltà di Economia, per ovvi motivi pratici, a dare vita ai primi corsi di laurea in lingue, da cui qualche decennio fa si svilupparono le Facoltà. Adesso le facoltà di Lingue sono una ventina, con migliaia di studenti che ricevono una formazione in cui lo studio linguistico è centrale, per importanza e per numero di esami e di docenti - a differenza di quanto avviene dove esso è solo uno dei diversi percorsi formativi proposti.
Eppure questo tardivo riconoscimento della sua necessità e dignità culturale è costantemente svuotato dall’indifferenza (se non insofferenza) del mondo universitario, aggrappato allo statu quo ante. E anche opinionisti e ministri sembrano credere che, comunque, basti studiare qualche oretta (magari ascoltando un cd) per imparare una lingua straniera. Con i risultati che vediamo a Bruxelles. Permane l’idea che, se proprio le lingue bisogna saperle, questo non significa che sia necessario investire nelle facoltà di Lingue come luogo dove si preparano, con un lavoro di anni - e non di qualche mesetto - dei cittadini italiani in grado di essere linguisticamente cittadini del mondo.
I laureati in Lingue, dice un recente rilevamento statistico, sono quelli, dopo i laureati in Economia, che tra i laureati delle facoltà umanistiche più rapidamente trovano un posto di lavoro. Perché ce n’è bisogno. Come c’è bisogno che i migliori di loro possano proseguire gli studi di specializzazione per diventare bravi insegnanti nelle scuole e attenuare (nonostante le poche ore di lezione) l’ignoranza linguistica che caratterizza il nostro Paese.
La riforma dell’Università attualmente in discussione offre tuttavia nuovi strumenti ai fautori dell’indifferenza. I corsi di laurea si sposterebbero sui Dipartimenti; ma le facoltà resterebbero comunque, come organismo di indispensabile coordinamento. E come punto di riferimento decisivo per gli studenti. Il fatto è che le facoltà non potrebbero essere più di dodici per ogni Ateneo. I presidi di Lingue, già un anno fa, mandarono un documento al ministero in cui, proprio pensando al contesto europeo, denunciavano il rischio di perdere «l’esperienza internazionale fondante acquisita nelle facoltà di Lingue» qualora esse scomparissero dentro altre facoltà.
C’è da temere che gli Atenei con più di 12 facoltà (se il Parlamento non eliminerà tale limite) per l’indifferenza dei più e il tornaconto di qualcuno decideranno di abolirle. A quel punto gli studenti che davvero vorranno «studiare Lingue» dovranno orientarsi verso le sedi dove il loro studio sarà programmaticamente centrale (da Torino, ad esempio, potranno rivolgersi a Milano, dove rimarranno ben due facoltà di Lingue). Ma a fronte di un impoverimento complessivo dell’offerta linguistica che, come insegna Bruxelles, questo Paese non può più permettersi.
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